Pietre dell’Orco di Miro Gianola
“Si è saputo di pietre che si son mosse,
di alberi che hanno parlato”.
William Shakespeare, Macbeth
Tutto scorre, ma la pietra rimane. Simbolo di memoria, custode fedele di racconti, portati dal fluire dell’acqua e poi restituiti all’orecchio attento dell’ascoltatore. La superficie levigata testimonia il tempo, un’esistenza nel passato ormai dimenticato. La pietra rimane, la pietra segna la strada, sulla pietra è stata costruita una Chiesa, la pietra è l’oggetto dello scandalo e dell’inciampo. Nel torrente Orco così come nel mondo fuori. È il monumento che dà inizio alla riflessione: chi è colui che è senza peccato, colui che può scagliarla per primo? Nessuno, ci insegna la tradizione. La sua superficie diventa lo specchio dentro il quale il sé, l’io, la coscienza, possa dall’alto spalancare il suo occhio sul suo cammino, coinvolgendo il trascorso e il ricordo; lo specchio davanti al quale confessarsi.Le pietre di Miro Gianola parlano all’artista, raccontano di antiche storie, quelle raccolte e poi tramandate dal vorticare incessante del fiume. Il ritmo procede qui per astrazione, si trascendono via via i rumori e le voci estranee del bosco, del mondo, dell’esistenza quotidiana in cui si è inesorabilmente immersi; si conduce quella autentica predisposizione creaturale ad accogliere nuovamente un linguaggio dimenticato da tempo immemore. L’autore diventa l’eroe del suo stesso agire. In questo silenzio ritrovato ripercorre il cammino segnato dalle superfici lisce e colpite dal sole, verso quella voce edenica ormai perduta, sepolta dall’urlo assordante del mito dell’oggi reificante. Un canto di sirena che riapre la possibilità di un contatto con la natura, originario, interrottosi con la Caduta, con la creatura arrogatasi l’insostenibile ruolo dell’imitatore, dimentica del vernacolo adamitico.
Questa serie di tele di Gianola soffia appunto sulla brace di questa antica predisposizione dell’uomo all’ascolto. Il silenzio della natura, quella stessa natura muta e triste descritta da Walter Benjamin, non sembra più essere, allora, la condizione immutabile nella quale il mito condanna l’intera esistenza dell’uomo scacciato dal giardino, l’homo allegoricus. La possibilità del simbolo, la nostalgia di una nominazione diretta in grado di ricucire gli strappi che lacerano un mondo ormai dimentico del suo tempo, privo di memoria, sembra riaffiorare sulla superficie di queste pietre. La pennellata è meditativa, quasi maniacale nella cura con cui è distribuita sulla tela. Vedute non antropomorfizzate nelle quali la natura si offre nella sua semplicità allo sguardo dell’osservatore, come un’alba, un punto d’avvio di quel cammino che sempre occorre tenere a mente. Alla spatola viene così preferito il pennello, fine, l’opera materica lascia il posto al confine incerto della pietra dipinta, delimitato non tanto dalla mano dell’artista quanto dalla luce che irradia dall’alto sulle tinte morbide utilizzate. È dentro una tela così costruita che lo spettatore deve perdere il suo sguardo, abbandonarsi momentaneamente nel gioco di luci e di ombre, ricreare la dimensione del silenzio cercata da Gianola sulle rive dell’Orco. Solo allora, nell’intimo del proprio animo, si aprirà la possibilità dell’ascolto, all’antica fiaba verrà fatto dono di una nuova e viva voce, personale, e potrà nuovamente narrare del tempo e della memoria che furono, di un’origine ormai scordata.
Andrea Arletti
La mostra dialoga con la proposta di lettura “Di pietre e d’acque”. Bibliografia dedicata alla natura.
Miro Gianola, pittore e scultore, nasce a Castellamonte nel 1939.
È per lui determinante, durante il periodo di formazione, l’incontro con Adolfo Merlone, accanto al quale lavora il grès presso l’industria di refrattari Saccer dei fratelli Casari a Castellamonte.
I “grandi animali” dotati di una forte energia espressiva, verranno presentati alla Galleria del Ponte Vecchio ad Ivrea (1966). Nella variante di “vasi zoomorfi” raggiungeranno ancora Vallauris, a cura di Enzo Biffi Gentili. In realtà l’esordio espositivo è già avvenuto, fin dal 1961, nel clima olivettiano di Comunità. Costante è la sua partecipazione alla mostra della ceramica di Castellamonte.
Nel campo della pittura, oltre all’appartenenza alla scuderia della torinese Viotti di Pippo Russo, il successo gli arride nel 1980 con l’esposizione antologica presso la Regione Piemonte a Torino, con il ciclo dei “grandi meli” visitati da una piuma surreale. Le opere di tale periodo sono state presentate anche all’estero, specialmente in Germania.
I suoi acquerelli (premiati a Verbania, Urbino e Fabriano) sono rapide notazioni di paesaggio, soprattutto dell’Orco, sia calmo che inquieto. La registrazione dell’alluvione, per volontà di Guido Novaria, è stata esposta alla Torre Ferranda (2003).
Il ritorno alla ceramica ha previsto, accanto alle figure in terracotta, ispirate secondo Luisa Perlo allo “Street-Style”, la modellazione di grandi sculture fittili, collocate nelle piazze di Canavese, a Ivrea (l’aranciere) e a Bollengo (monumento a Giuseppe Saragat).